PASSIONE
Sarai Mia
25 aprile, 2017
Questo racconto è tratto da un ricordo di C. uno dei primi visitatori del Museo. Abbiamo “romanzato” un po’ la storia, ma vi assicuriamo che il contenuto non è stato snaturato. Se anche voi avete una storia alfista da raccontare, inviatela a info@museofratellicozzi.it.
Buona lettura.
SARAI MIA
La conoscevo da sempre. Era entrata nelle nostre vite quando, ancora troppo piccolo, non potevo capire che sarebbe stato per tutta la vita. Subivo il mondo e cercavo di fare quello che mi dicevano: “Sali, sbrigati, il viaggio è lungo”. Prendevo il mio zaino con i giocattoli più cari e passavo ore a guardare il mondo scorrere dal finestrino posteriore, come un film già visto eppure sempre diverso. La radio gracchiava musica e notizie: un’imperfezione analogica che oggi rimpiango.
Mio padre passava molto tempo con lei, forse troppo. Mi capitava di esserne geloso quando dalla finestra lo vedevo mentre si prendeva cura del suo grande amore. L’accarezzava senza toglierle lo sguardo di dosso. Probabilmente fu allora, ammirato dalla bellezza e animato dalla gelosia, che dentro di me si fecero largo le parole “sarai mia”. Ogni tanto scendevo nel piazzale sapendo di trovarla sola e iniziavo a parlarle. Lei restava in silenzio, ma sapevo che mi ascoltava. Quando mi stancavo della sua reticenza, le voltavo le spalle e me ne andavo con un’altra, ma dallo specchietto retrovisore vedevo un bagliore nei suoi occhi. Sapevo che le sarei mancato.
Gli anni della gioventù mi portarono verso la via della concretezza. Coglievo le occasioni, inventavo la perfezione là dove altri avevano già alzato le mani, in fondo la vita è anche riconoscere le opportunità, lasciarsi trasportare, chiedere un passaggio ai propri sogni.
La pensavo, ma faceva male. Faceva male pensare al volto di mio padre sempre più scontento, rassegnato. Ci provavo, dio solo sa quanto ci provavo. Quante volte ho sussurrato “Dai pa’…”, ma le parole restavano soffocate dal suo orgoglio e dalla mia rabbia. Era una scena rivista mille volte. Voltava le spalle e a me non restava altro che guardarlo dalla finestra, insieme a lei.
“Prenditi cura di lei…”
Non scorderò mai il giorno in cui nacque mio figlio. Mi sentivo pronto, volevo essere padre. Provavo tutte le emozioni che il cuore può provare ed ero stremato. Felice, invincibile, stremato. La sua ombra divenne a poco a poco più concreta. Mentre si apriva il portone mettevo a fuoco. Lui, con lei, nel mezzo del cortile. L’accarezzava, ma con lo sguardo cercava me. Il suo viso era teso, ma sorrideva. Aveva pianto. Non lo avevo mai visto piangere.
Mi avvicinai a lui. Non disse nulla per un po’. Ci guardammo: gli stessi occhi negli occhi. Lei era lì, immobile, bellissima. Alzò il braccio e mi tese una pezzuola un po’ consunta. “Da oggi sarà tua, prenditi cura di lei, perché possa essere un giorno di tuo figlio, mio nipote”. Non capivo. Ero smarrito e lo guardavo come un figlio guarda un padre, ora che io stesso lo ero diventato. Mi prese la mano, posò le chiavi sul mio palmo e mi abbracciò forte. Giulia ora era mia. Mio padre, ora era mio.